Osgood Perkins, figlio di cotanto padre (Anthony, ovviamente), da sempre fa horror che hanno nella creazione di ambienti soffocanti e atmosfere stantie il mood su cui si innesta la presenza pervasiva del Male come motore narrativo. Così è stato fin da February: L’innocenza del male (2015), a cui sono poi seguiti Sono la bella creatura che vive in questa casa (2016) e Gretel e Hansel (2020). Un motore che lavora a giri bassi, che alle accelerazioni preferisce fiammate repentine che incendiano l’atmosfera per riconsegnarla subito dopo con un’alterazione sensibile e un turbamento fastidioso, nonostante il dubbio costante di uno sviluppo drammatico non sempre adeguato rispetto allo spessore delle condizioni allestite.
Longlegs ha invece qualcosa di sensibilmente diverso. Identici la cura nella creazione degli ambienti e il motivo drammatico di fondo (l’esistenza del Male), molto diversa la costruzione della storia, pronta a superare la consueta classicità dei precedenti film (ossia case infestate e sublimazione dell’incubo soggiacente nelle fiabe) e a sfociare nel pastiche, ponendosi a cavallo di un curioso ibrido formato da una detection dal clima talmente denso da sfociare quasi naturalmente nel terrore. La storia si basa su uno schema narrativamente assodato, legando il presente a un passato enigmatico fatto di una sequela di flashback progressivi proposti con un’estetica rétro e una ratio sensibilmente ridotta a 1.33: 1: in un periodo imprecisato tra il ’93 e il 2000 (c’è la foto di Clinton negli uffici), la detective dell’FBI Lee Harker, grazie al suo notevole e misterioso intuito, è incaricata di trovare un nesso in una serie di stragi familiari che ruotano intorno a date ricorrenti e che paiono una sorta di epidemia dettata da una comune matrice.
Se il rimando a fantasmi inconsci del passato è la misura di una miscela sempre valida per avvolgere le vicende di traumi pregressi e se Nicolas Cage, che produce anche, pur comparendo integralmente solo dopo più di quaranta minuti, consegna alla progressiva opera di memificazione della sua carriera altri momenti antologici, gran parte dell’atmosfera malata che si respira è merito dell’attenta costruzione della regia di Perkins. Longlegs, infatti, edifica la sua essenza sulla suspense intesa nel senso etimologico di sospensione, sull’opprimente saturazione a cui conducono le lunghe e statiche scene, nell’attesa che qualcosa di ancora indefinito si compia.
È proprio sull’indefinito, sulla mancanza di margini certi, sull’impossibilità di circoscrivere da dove e in che modo provenga la minaccia (e anche se dovesse davvero manifestarsi), che Perkins organizza la sua messa in quadro, in una sorta di ricerca plastica dell’incombenza, in una circostanziata preparazione alla rivelazione oppure, peggio, all’attesa per una tensione procrastinata che si allunga come un elastico, pur nell’eventualità che non si arrivi mai a un punto di rottura. Più che dalle parti de Il silenzio degli innocenti, la cui vicinanza abbaglia per via del detective donna dalle grandi doti intuitive, siamo nei territori (inimitabili, occorre dirlo), dello Zodiac di Fincher, capace contemporaneamente di rendere l’attesa soddisfacente pur nella frustrazione di una rivelazione impossibile.
Longlegs è insinuante, perennemente allucinato, per lunghi tratti attonito, come la sua protagonista, interpretata da Maika Monroe (It Follows, Watcher), emotivamente piatta, incapace del minimo slancio emotivo, risucchiata da un trauma infantile di cui ha una memoria solo parziale. E questa parzialità della visione (del passato, del presente) è il motivo narrativo che Perkins trasforma in cifra stilistica per caratterizzare ogni inquadratura attraverso un preciso filtro. Il ricordo in flashback è un piano che lascia il volto del Male fuoricampo, più che nell’assunzione di una prospettiva infantile, nel tentativo di una rimozione del trauma che sul piano stilistico si risolve in un’inquadratura che altrimenti sarebbe da considerare sbagliata.
La conseguenza è un presente totalmente deformato, in cui ogni inquadratura proposta è il frutto alterato di una realtà che da quello stesso Male è soggiogata e che Perkins traduce con un accostamento di piani stridenti (grandangolo a seguire le azioni concitate abbinato al teleobiettivo nel mostrare l’espressione della protagonista durante il movimento) oppure con un’ossessiva continuità su cui si innestano inquadrature rese estreme dalla mancanza delle abituali transizioni (i movimenti lentissimi, quasi impercettibili sulla protagonista, acuiti dall’assillante sound design, spezzati improvvisamente da piani più ampi che la isolano nello spazio). Oppure ancora alludendo al concetto di intimità violata, che è un altro dei motivi fondanti del film, tramite il motivo ricorrente di finestre, ingressi, corridoi e cristalli delle auto, che riquadrano e delimitano pericolosamente.
Cage è una presenza inquietante, grottesca e debordante come un riff di Marc Bolan, che il film cita più volte apertamente, anche se la sua maschera pallida e celata da una pesante protesi ricorda più un Tiny Tim albino. Nei titoli di coda figura anche il personaggio di una Ruby Carter adulta, totalmente assente invece nel film: parrebbe un indizio per un sequel, ma è probabilmente l’indice di un’altra rimozione, quella di una scena dopo i titoli di coda che avrebbe ribadito a distanza di anni un finale già fin troppo chiaro.